lunedì 3 maggio 2010

Piero Chicca-Claudio Di Scalzo: Elenco alfabetico di celebri soprannomi di provincia



                                                       Libertario Di Scalzo detto Lalo 
(1921-1995)






Su Vecchiano e sulla Piana del Serchio ho raccolto in vernacolo storie surreali, bugie, ninne nanne, filastrocche, soprannomi. Ho chiamato questo pacco di fogli "II Mondo del Mamai”. Claudio è un amico che, in lunghe serate invernali, ha condiviso con me un viaggio attorno alle nostre comuni radici. A volte abbiamo riso a tutto spiano per il solletico che davano, altre volte ci siamo commossi perché buavano. (Piero Chicca)

Ho sempre avuto una forma di attrazione verso il soprannome forse perché è per me nello stesso tempo e la forma più esemplare di un singolo e il segno minimale di un vissuto in corso o cessato. Più di azioni nobili o infami, mediocri o esaltanti, incolori o ruggenti, il soprannome mi restituisce il residuo di un’esistenza almeno quanto un osso può dare l’idea di polpa, di nervi, di sangue. L'elenco alfabetico di soprannomi del mio paese, di Vecchiano, sistemati da Piero Chicca, mi dà l'opportunità di rimpolpare dei segni che di sicuro sorreggono, più di quanto ne abbia coscienza mentre scrivo, la mia costituzione provinciale. (Claudio Di Scalzo)




ELENCO ALFABETICO DI CELEBRI SOPRANNOMI DI PROVINCIA

Agonia raccontò sempre le sue malattie immaginarie riducendo il volto a una maschera di mistica sofferenza. Nel paese non lo videro mai ridere. Solo in punto di morte rise in modo stridulo e gorgogliante, ma tutti pensarono che fosse la sua ultima ed estrema malattia.

Buaceci faceva collane con i ceci e per questo bucava i legumi. Li metteva poi al collo della fidanzata e li sgranocchiava facendo cadere i residui e la saliva su dei seni prosperosi.

Candele non si soffiava mai il naso e il muco gli colava sulle labbra e il mento. A volte scherzando lo faceva filare fin quasi a terra per poi tirarlo su, farlo scendere in gola e sputarlo sul muro.

Dollaro faceva il mercato nero, e siamo nel 1946, con i soldati neri della Divisione Buffalo accampati nella pineta di Tombolo presso Livorno. Una vera e propria città nera con commerci innominabili, prostituzione, omicidi e ricatti. Dollaro comprava calze di nylon dagli americani bianchi e le rivendeva alle prostitute bianche italiane protette dai neri. Realizzò pacchi di dollari che investì nel commercio dei giganteschi camion da trasporto americani. Da uno di questi, mentre contava i dollari umettandosi l’indice, fu investito e stritolato. I dollari volarono per aria e dalla sua tuta sbrindellata si scopri che indossava calze a rete.

Ergastolo si era fissato con il bandito Giuliano e le sue imprese, anche perché avevano lo stesso nome, una forte somiglianza e la stessa passione per le doppiette e gli stivali lucidi. Scrisse al Presidente della Repubblica per affermare solennemente che Giuliano la strage di Portella della Ginestra non l'aveva commessa perché quel giorno era a letto con una svedese. La sua incrollabile convinzione nasceva da un fatto molto, ma molto privato, infatti Giuliano nei momenti cruciali faceva sempre le stesse cose del suo doppio, di lui Ergastolo insomma, che proprio in quel giorno tragico, a centinaia di chilometri di distanza dalla Sicilia stava facendo l'amore con una svedese conosciuta a Marina di Vecchiano.

Farfalla da piccolo rincorreva sempre le farfalle sui prati senza riuscire a prenderne neppure una. Un giorno nelle sue corse a naso all’insù cadde in una buca profonda e si spezzò la colonna vertebrale. Da quel giorno stette seduto sopra la carrozzina a rotelle dentro una camera angusta, e per farlo contento gli portavano farfalle dalle ali frementi che lui, con uno spillo, inchiodava sull'armadio. Ne aveva attorno centinaia e ogni giorno diceva loro: volate, volate, perché non volate?

Gesù-nel-bicchiere aveva sviluppalo un'eresia particolare affermando che lui si comunicava non coll’ostia ma con il "ponce' alla livornese e che lì, nel liquido misto di caffè e di cognac, Gesù gli sorrideva benedicente. Se qualcuno avesse trascritto le sue prediche dal terzo ponce in avanti avrebbe avuto pena, nel rileggerle, del suo destino di spretato.

Impregnamosche era alto di statura ed esile e la sua pelle tirata sulle tempie faceva intravedere delle venuzze. Si curvava nel parlare verso l'interlocutore e roteava gli occhi ridendo da solo alle sue melenserie con una specie di soffio acuto. Sembrò ai vecchianesi uno di quegli insetti a forma di sigaro che è facile incontrale sulle paludi del Lago di Massaduccoli? Forse, perché appena asserì di avere messo incinta la fidanzata, gli risposero che col suo sesso microscopico al massimo avrebbe potuto impregnare una mosca.

Lalo era il soprannome di mio padre. O meglio una sorta di nuovo nome in sostituzione di Libertario che il fascismo gli impose di dimenticare e ai compaesani di non chiamarcelo più. A mio padre, che ebbe tempo un paio di giorni per comunicare alla sede del Fascio il nuovo nome, venne in mente una vecchia rivista lasciata anni prima da parenti emigrati in Francia e che parlava di un'opera, "Il Re d’Ys" del compositore Edouard Lalo. E così scelse di chiamarsi come un musicista per resistere al fracasso di una ideologia che calpestava il suo vero nome.

Libeccio crebbe attaccabrighe e preda di scatti nervosi che lo portavano a scrocchiare furiosamente le dita prima di menare pugni all'avversario di turno. Per tenerlo calmo lo convincevano a giocare a carte, ma volendo sempre vincere le partite, se il punteggio non lo soddisfaceva, rovesciava per terra il tavolino come il libeccio fa, avventandosi sulla spiaggia di Marina di Vecchiano, contro le sedie e gli ombrelloni

Si trasmettono il soprannome di padre in figlio e in genere sono alti un metro e mezzo e pesano molto poco. Da qui il soprannome Mezzochilo portato con stolida indifferenza e un misto di arditezza. E questo anche perché i mezzochilo sono simpatici, tenaci e resistenti a ogni malattia e fatica.

Moro di capelli, scuro di pelle, con occhi neri e torvi stava indolente in cucina estate e inverno a fissare, dal riquadro della porta aperta sulla strada, i passanti. Neritopo lo chiamavano i bambini strillando dalla via e fantasticavano che a notte uscisse per insane gesta e terribili riti.

Ovaino vendeva le uova e lo faceva con una grazia tutta femminile nel porgerle con le sue dita lunghe e affusolate dalle unghie nere e spezzate. Ovaino, ovaino, lo vuoi un bacino? Lo canzonavano gli uomini a vederlo passare di piazza.

Pesaappelli rifiutava qualsiasi lavoro manuale. Troppo pesante per me, diceva fantasticando una scrivania o più semplicemente un'improvvisa ricchezza di la da venire. Tanto si dilatò la leggenda della sua fuga, a costo della fame, dal ruolo di creatore di plus-valore con la forza delle braccia in qualche fattoria o cantiere, che i suoi più creativi detrattori sostennero che anche nell'acquisto del cappello sceglieva, soppesandolo, il più leggero.

Il capostipite della genia dei Quarantaquindici non conosceva i numeri oltre il 49 e quando da bambino lo mandarono nel campo a contare i covoni del grano lui contò quarantanove, quarantadieci, quarantaundici, e riferì che erano quarantaquindici.

Repubbria, novantenne, repubblicano storico che diceva di aver partecipato alla presa di Porta Pia, usciva di casa ogni mattina con la sua seggiolina, il tascapane a tracolla e andava a sedersi davanti al monumento di Garibaldi finché non veniva buio. Conversava tutto il giorno con la statua. Nessuno udì mai cosa si dicessero. Però, se pioveva, piangevano entrambi.

Il bambino diventò Settefette perché alla maestra che gli domandava cosa avesse mangiato il giorno prima rispondeva immancabilmente… polenta. Quanta?, chiedeva la maestra di matematica. Settefette, diceva il bambino. E si vergognava a nominare sempre lo stesso cibo, si vergognava fino alla disperazione. - Mamma, come posso fare? - Digli che hai mangiato la pastasciutta. Il bambino ringraziò e decantò fra sé la furbizia della madre che però lui, il giorno dopo, dimostro di non avere ereditato.

- Cosa hai mangiato?

- La pastasciutta.

- Quanta?

- Settefette.

Treppiavetri dormiva con le scarpe perché aveva paura di sognarsi di camminare su cocci di bottiglia e schegge di vetro.

Uticchio si chiamava di nome Eutichio che significa fortunato. Però lui era storpio. Uticchio lavorava come garzone da un macellaio e con le cotiche attirava i cani in bottega per tagliare con un coltellaccio, a quelle povere bestie, i tendini delle zampe posteriori. Poi, con una pedata, li gettava in strada e rideva a sentirli guaire mentre si trascinavano nella polvere.

Vento era uno scienziato dilettante e asseriva che tutto nel mondo era semplice e che l'uomo complicava ogni aspetto della vita. Lui applicò la sua teoria al problema dei problemi per un toscano: raddrizzare la Torre Pendente. Sostenne, dopo ampie osservazioni, che la Torre si era storta a ponente per colpa del vento di levante. Il libeccio l’avrebbe raddrizzata se solo i pisani avessero abbattuto le mura attorno a Piazza dei Miracoli che impedivano al vento di fare il suo mestiere. Morì proprio pochi giorni dopo aver trovato un italoamericano, in visita a Pisa, disposto a pubblicizzare sui giornali di Topeka City la sua teoria.

Avendo il volto bianchiccio, segnato da delle voglie nerastre sul mento da un orecchio all’altro e da una più filiforme, che gli tagliava l’occhio destro e la guancia, lo chiamarono Zebra. E come una zebra fuggiva chiunque gli si avvicinasse, per nascondersi nel suo orto fra le canne che sorreggevano i piselli.



Da Tellus 20, Metafore locali, la cultura dell'autonomia. 1998. Euro 5,00. La rivista Tellus è stata diretta da Marco Baldino dal n.1 al numero 22 e da Claudio Di Scalzo, come annuario, dal numero 23 al numero 30. Con il numero 30 Tellus ha concluso il suo ciclo e la sua riflessione filosofica e letteraria. 





1 commento:

  1. Fantastico! Quello dei soprannomi e la loro origine è davvero un'idea grandiosa...risponde a molti miei interrogativi! Bravi!

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