martedì 25 maggio 2010

Piero Chicca: Un mangiá fa bon'all'òcchi. Post scriptum di Accio



                                                     Marina di Vecchiano "Il bambino a giugno"



                                    DIALOGO EDUCATIVO SULLA VISTA E LA PANCIA

-Un mangi?, ti fa bono all'occhi.
-Come vòr di'?, o ma'.
-Vòr di così: è mangiato?
-No.
-E quer che tu avi nner piatto lo vedi sempre?
-Sì.
-Ecco, ti sè' sarvato ll'òcchi.
-Perché?
-Perché se avi mangiato, quer che era nner piatto òra un lo vedevi più.


Lo stesso vale, caro 'r mi' Claudio, per quelle vive immagini che ti manda Bruno della Baldinacca, che quando un Moloch di nome Parco Commerciale avrà 'ngollato il nostro bel paesaggio, non le vedrai più.
Non vedere più una fotografia è triste, ma è un male relativo; il male oggettivo è che non troverai più i posti dove crescevamo.
Una sera o l'altra, quando il tuo ritorno autostradale sboccherà nei tuoi posti - quelli della tua gioventù, che ricordi con nostalgia - non ti saluterà più un tramonto sulla macchia; andrai a sbattere in un Vaticano (qui uguale per falsità con rincaro di dogmatico consumismo) e entrerai in un grovigliolo di svincoli senza bandolo dove serve il moccolo per trovare la via di casa.
Comunque a Vecchiano la cecità ha già colpito e non fa più paura, dunque il piatto non si respinge e ci s'accinge al mangio.
                              Tutto per il ventre, per lo spirito niente.
                                                                                           Piero Chicca



                       I Cavalieri dell'Ideale che non servono più  e l'importanza della bietola

Il mio amico Piero Chicca, che a Vecchiano abita a dieci metri da casa mia, in Via della Chiesa, e anche le nostre mamme sono amiche: la Lina e la Nada (un romanzo sentirle chiacchierare), “racconta” affidandosi ad un apologo scritto in vecchianese, all'incisiva lingua dei padri, l’arrivo dell’IKEA e di un centro commerciale a Pisa Nord, in zona pre-parco, dove ora c’è la macchia e i campi di girasole. E dove noi siamo cresciuti raggiungendo il mare o il lago di Puccini. Il suo dialogo è venato di malinconia, ma anche dal virile riconoscere che non è più tempo di “Cavalieri dell’ideale”. Come siamo, in fin dei conti, io e lui, e Bruno della Baldinacca.
Questi amici abbraccio da qui - anche perché a maggio grande è in me la nostalgia della mia terra - e mi firmo con il soprannome che, ancora, chiunque lo usi in via indipendenza numero 9 a Vecchiano, può avere  un piatto di pasta senza pagallo, o un libro da leggere, o un orlo di pantaloni ben fatto da una sarta di talento… E questo viatico dato da un soprannome, caro Piero, non possono capirlo, come funziona, scrittori e poeti di oggi, allevati a miscela*, tanto simili nel commerciare parole ai centri commerciali. Quando tornavo a Pasqua, da Vecchiano, nuovamente in questa valle alpina, avevo nel bagagliaio la bietola di Bruno, che mi aveva lasciato davanti all'uscio con tenerezza amicale, senza nemmeno sonà il campanello, e sapevo che se ero uno scrittore, era perché sapevo del valore di quelle bietole - E ora basta sennò divento sdolcinato e non è da noi…
  
                                                                 Accio figlio di Lalo



Da piccoli, a Vecchiano, i bambini allevati a miscela erano come i polli di batteria. Che appunto venivano cresciuti con un miscuglio industriale. Al chiuso. Poi c'erano i monelli che crescevano come polli liberi di stare in giro nei prati e nei cortili. Che il cibo se lo cercavano da soli.  Accio non è stato cresciuto a miscela, non ha mai conosciuto la gabbia, nemmeno da grande. Se i Centri commerciali crescono facilmente nei parchi è perché ormai tutti i bambini crescono a miscela.

  

Giorgio Marianetti: Sulla scia della biciclettata nel parco con aneddoto su Cardanata



                                                 Parco - Girotondo attorno alla quercia centenaria


Caro Claudio... c'ero anch'io alla biciclettata organizzata dal maggio migliarinese insieme a mia moglie e mia figlia. una bella giornata vissuta in allegria e serenita'. c'erano anche diversi vecchianesi come avrai visto, anche pardini colombo con moglie, figlio di quel mazzini , figlio a sua volta di quel cardanata grande vecchianese e grande cultore della lotta greco romana ( famoso quel racconto, nel solito bar vecchianese, di un sua gara, non so' dove, pare una gara nazionale. Bene cardanata descriveva le fasi della lotta e uno che ascoltava gli disse: ma non lo facesti ponte. e lui rispose : lo feci si ma era di sagginali!!. bene pero' parliamo di cose piu' serie; almeno io non sono andato alla biciclettata per dire NO a IKEA. sull'argomento necessitano ancora diversi dibattiti. il problema è che ancora nessuno ha la verita'. personalmente in quella zona, un centro commerciale adeguato con o senza ikea, non starebbe male. non vedo altri sbocchi, a parte i girasoli. il privato porterebbe liquido necessario alle infrastrutture che sono indispensabili con o senza il centro commerciale. la giunta comunale è divisa e quindi non sa che pesci prendere . credo che aspetti la fine della legislatura che sarà a breve, per spostare la patata bollente ad altri. quindi come vedi gli argomenti ci sono per non annoiarci alla cena che faremo si potrebbe fare nel nostro casotto sul lago di massaciuccoli. non sarebbe una brutta idea .vedremo. ti saluto

                                                               Giorgio Marianetti



   

venerdì 21 maggio 2010

Claudio Di Scalzo Accio: Testacoda vecchianese. E omaggio a Paolo Fatticcioni detto Il Pazzo




                                     
                                                           Cds, "Core manipolino", 1975



       TESTACODA VECCHIANESE

Core manipolino che si testacoda in canto sì nero aspro per luccicante rotta negli amati segni del fumetto. In tenebre a maggio future appari. Viènghino a piglià moglie. Sai di sognomio che non s’avvera in mimosa sfondo sopra bocca rossa d’uovo. Sua. Bua. Quand’ero ‘nn’ Amerìa. Conduci farfallo tremito della bestia mentre mento nel final disfacimento peloso. Infima preda nell’insorta quiete. Provà per crede. Core manipolino. Giallo d’orinale. Funere notizia di chi recita poiché infranse il mondo. Ciarliere mani avvinte nella cera dei fianchi e sonno quieto provai nel prendere il largo dal foglio dipinto. Me ne riviensi presto. Duv’era meglio. Odor di giovinezza avvampo e l’origine gioconda dono. Core manipolino. L’amoroso latte cagliato del discorso bevo. Spargo. Instupidisco. Baratto. Nell’inghirlandata primavera sentiero spinoso d’immagine nell’occhio premo. Fate ì ‘onti con me. Erin leccate. E voi mi promettete sguardi e letture. Insidia da libro con passione questo roso decorso: nomino l’amor mio né fra vivi né fra i morti : inferto sospiro in sospetta consolazione : fantasma mutilato : giglio adagiato nell’aura dell’eros : incontaminato : d’illusione : poesia per te : sfiorita musica nell’ora del distacco : menzogna sincera : indocile sull’orlo della bestia mesta : colle lische un cor mio ‘osì un l’avevo ancor visto : cupo muscolo dell’io in brodo stà bono : sei centro in ogni punto e cerchio occhio mai socchiuso : mamai dorcevita vecchianese : (allora avevo ventanni e parlanne cenere spargo bruttoadissi nel mi' stesso foo interiore) : in rete

 Claudio Di Scalzo detto Accio  



Paolo Fatticcioni detto Il Pazzo, è morto nel 2005. Era il mio compagno di avventura nelle sale da ballo versiliesi negli anni Settanta. Abbiamo avuto in sorte di amare l'utopia della rivoluzione e le belle donne alla Bussola di Viareggio mentre Mina cantava. Nella rivista Tellus che ho diretto fino al numero trenta, prima che chiudesse il suo ciclo, (dicembre 2009) ho parlato della sua vita di barbiere inventivo nel taglio e negli amori e nella caccia solitaria di frodo. Prima o poi scriverò su di lui una storia lunga su carta stampata. Devo farlo anche per mio padre. Intanto il suo "romanzo", che in parte è anche il mio, compare e comparirà on line. Quando ne ho voglia di scriverci, quando penso ai miei morti, quando qualche fantasma mi muove a mettere in luce quanto sta nell’ombra. Ho ancora un certo talento per questo. Lo userò per avere su di me lo sguardo benevolo di chi mi ha amato. E che mi ha preso e amato per come ero. (Accio)


  

sabato 8 maggio 2010

Francesco Giuseppe Bertelli detto “Cecco" anarchico di Vecchiano

  


Cds, "Cecco Bertelli", disegno su carta, 1989


                                                      L'ANARCHICO DI VECCHIANO

Francesco Giuseppe Bertelli nacque a Vecchiano il 1° febbraio del 1836, quando la torre ghibellina del paese, riconvertita in campanile della chiesa, guardava come oggi verso la pineta e poi al mare, ma ampi erano gli acquitrini e le zone paludose in questa parte della valle del Serchio, vista da lassù. Cecco più che il paesaggio fissava il sole repubblicano e sociale del proletariato. Presto la sua vocazione risorgimentale divenne anarchica e confidò di raggiungere la Comune di Parigi nel 1871 per mischiare il suo vernacolo vecchianese con quello del proletariato parigino. Tanto, una camiciola rossa e un berretto su una divisa di soldato del proletariato, facevano intendere ciascuno lì accorso. Ritornato al paese viene incarcerato ma non demorde e scopre nella poesia, in certi versi accesi e di protesta, una vena che vale quanto una ribellione insurrezionale. Ne pubblichiamo alcuni. Il personaggio proletario più illustre di Vecchiano ha oggi una sua via nel paese, anche per l’impegno di Piero Chicca che ne ha ricostruito le vicende. Chicca, che lavorava all’anagrafe del Comune, districandosi fra cenni biografici, date in vita e in morte e luoghi che mutano a seconda dei vissuti che ospitano, ha curato pregevoli antologie sui modi di dire vecchianesi e financo sui soprannomi e racconti sui personaggi di Vecchiano.
L'anarchico vecchianese compare anche nel prezioso libro di Franco Bertolucci. Anarchismo e lotte sociali a Pisa 1871-1901, Dalla nascita dell'Internazionale alla camera del Lavoro edito dalla Biblioteca Franco Serantini di Pisa nel 1988.


                                   LA RIBELLIONE DELL'ANARCHICO CECCO BERTELLI 

Francesco Giuseppe Bertelli nasce a Vecchiano (Pisa) il 1° febbraio del 1836. Volontario nella Terza Guerra d’Indipendenza (1866). Tenente garibaldino a Mentana (1867). Segue Garibaldi in Francia nella guerra Franco-Prussiana.
Dopo gli eventi della Comune di Parigi torna a Vecchiano (1871).
A Vecchiano promuove la costituzione dell’Unione Democratica Sociale. Sempre sorvegliato dalla polizia viene ripetutamente arrestato per la sua propaganda definita “sovversiva”. Nel 1875 viene incarcerato perché sorpreso a distribuire copie di una sua poesia contro la pena di morte.
L’esperienza francese e gli echi della tragedia dei comunardi lo tocca profondamente e a testimonianza di ciò scrive una celebre poesia dal titolo “Esame d’ammissione del volontario alla Comune di Parigi” della quale resta nella memoria locale vecchianese una libera riduzione dal titolo “Dimmi bel giovane”: «Dimmi bel giovine/ onesto e biondo/ dimmi tuo dio tua patria qual è/ Adoro il popolo/ mia patria è il mondo/ il pensier libero è la mia fe’/ (…)».
Scrive numerose altre poesie in parte perdute.

(Dal Dizionario bibliografico degli anarchici pisani. AA.VV., Edizioni Biblioteca Franco Serantini, Pisa 2003)

Questo per la storia ufficiale del movimento operaio: uno delle migliaia di libertari perseguitati, sbandati e dispersi, ai quali resta associato un pen-siero romantico. Ma a Vecchiano Cecco Bertelli che per le sue doti poetiche venne definito dall’amico maestro Valapini, preso da slancio incontenibile “Il cigno del Serchio”, fu simbolo di rivolta, con variabile purezza alata, e stimolo a pensieri di aperta ribellione. Poi divenne un mito. In seguito e più prosaicamente fonte d’aneddoti... Poi più niente.
Fin da ragazzo rinunciò alla scuola «fatta per deferenza al re e alla chiesa e che ammaestra solo ad avvincar la schiena»; e preferì seguire il mestiere del padre, il fabbro-maniscalco. Figura esile e delicata, quasi un dispetto all’immagine solita dei fabbri con braccia come tronchi d’albero, «addomesticava il ferro» e divorava libri. Se c’erano occasioni di propagandare la sua fede non ne perdeva una, se non c’erano le creava. Al passaggio di una processione religiosa, fingendo di litigare col padre, sparpagliò fuori della bottega tutti gli arnesi e si mise a lavorare in mezzo alla strada. La processione poté passare solo dopo l’arresto del “satanasso”, ma nel frattempo si era sfollata e ridotta a uno sparuto codazzo di volenterose beghine. Il gesto gli costò cento giorni di galera. Per tutto questo tempo il prete lo trassinò dal pulpito e Cecco meditò di fargliela pagare alla prima occasione. Un giorno che lo vide arrivare, arroventò un palancone, lo gettò in mezzo alla strada e si nascose dietro l’uscio di bottega ad osservare la scena. Quando il prete vide la moneta si guardò intorno furtivo e la raccolse, ma subito la lasciò col palmo della mano abbrustolito. Cecco spalancò la porta e gli lanciò una delle sue sarcastiche quartine che poi trascrisse e affisse a un platano in piazza. Una notte, a Pisa, di ritorno da un convegno segreto incontrò una ronda di carabinieri che gli chiese conto del suo vagare notturno.
«Vengo da una riunione di libertari», disse stringendo il manubrio della bicicletta, a voce alta.
«Di libertari? Ah, complimenti! E c’era per caso anche un certo Francesco Bertelli?» chiese l’uniforme impettita.
«Quando c’ero c’era», rispose Cecco sogghignando.

Questo era il Cecco degli aneddoti, ma Francesco Bertelli fu soprattutto uomo di profonda fede libertaria. Sempre in prima linea, sempre vocato all’impegno politico a favore del proletariato e di conseguenza sempre tormentato e preso di mira dalle “autorità”, sia che andasse in bicicletta col buio o che scrivesse versi parodistici o che facesse circolare qualche giornale sgradito ai potenti del luogo. Generoso fino a privarsi dell’essenziale per aiutare il prossimo anche senza esserne richiesto e magari affidandosi all’anonimato.
Sulla sua solidarietà, poi, per chiunque si battesse per la giustizia e per il lavoro ognuno ci poteva contare come sulle lancette dell’orologio che girano senza tentennamenti. Nell’anno 1900 organizzò un raduno di superstiti garibaldini che in divisa e in cospicuo numero (pare oltre sessanta) vennero a Vecchiano a deporre una corona alla lapide di Antonio Fratti ascoltando l’Inno di Garibaldi e la Marsigliese. Durante la manifestazione Cecco raccolse offerte per le famiglie dei caduti garibaldini.
Sentendo insopportabile lo scherno dei maggiorenti di Vecchiano, perbenisti e benpensanti, e indigeribile la scomunica del prete, sfidò questi e quello a un pubblico tenzone sulla piazza del paese. Naturalmente nessuno raccolse la sfida, ma lui tenne ugualmente la sua invettiva con un surreale dialogo con la statua di Garibaldi. Rivolgendosi al suo generale lo chiamava “Mondo”, “Tuttoté”, “Leone”. E come un leone feroce ma maestoso lo esortava a scendere dal piedistallo e a «disperdere iene e sciacalli», «adoratori del denaro», «conculcatori dei diritti di libertà e di uguaglianza», per liberare l’umanità dai «malefici ministri delle tenebre e della superstizione», tanto ottusi e calcolatori da esser diventati dei «traditori di Cristo per aver più a cuore piaceri mondani e ricchezze». Le parole di Cecco in questo dialogo con la statua, tramandato negli anni dalle veglie attorno ai camini, avevano qualcosa di parossistico nel loro esaltato candore.
Definì il clero reazionario come «vermi roditori delle coscienze giovanili» usando proprio le stesse parole del condottiero dei due mondi, tanto le sapeva a memoria, e terminò con esortazioni rauche e ultimative: «Smurati Beppe! scendi! ciriènno! ci rivoi! ma questa volta alla larga dai Savoia!».
Però lasciando la piazza alzò un braccio e senza voltarsi salutò Garibaldi con un ironico «Addio libeccio» e a capo chino s’allontanò fra gli applausi della folla. Solo il suo amico maestro capì il saluto e la sua rassegnata mestizia. A Vecchiano si dice che il libeccio dura tre giorni e lascia il tempo che trova. Così anche i suoi infuocati richiami sarebbero passati senza lasciare troppa traccia.
Cecco non ebbe figlioli e restò vedovo a sessantaquattro anni. Mia nonna, sua pronipote (figlia della nipote Argentina) lo accudì fino alla morte, diventò la sua pupilla e restò depositaria della sua volontà di essere “bruciato” dopo morto. Ricordava vagamente una rima incompleta che diceva più o meno così: «O falso tenebroso tempio/ Morir si mòre tutti non se n’esce/ Ma quel che più mi dòle e mi rincresce/ È di finir nelle laide lezze mani/ di Bibe e di Tabesce».
La pronipote si adoperò perché il desiderio dell’uomo fosse rispettato e non avvenisse come per Garibaldi. Ma i compagni anarchici pisani anch’essi depositari della medesima volontà già avevano tutto predisposto.
La maggior parte delle notizie (frammentarie e forse in parte anche imprecise) sullo Zi’ Cecco le ho apprese proprio da mia nonna. Mi raccontava che da bambina ebbe in dono dallo zio la divisa garibaldina che lei conservò con cura nella “carbonina” finché un giorno, nel ventennio, qualcuno si adoprò perché scomparisse e lei non seppe mai darsene pace. Io ho cercato di rintracciare questa laica reliquia seguendo le memorie della parente. Sono quasi arrivato a riaverla fra le mani per depositarla sulle radici del ceppo familiare, ma poi è svanita ancora.
Cecco se n’andò una gemente mattinata d’ottobre del 1919. Il suo amico Valapini volle in seguito credere che la Grande Uguagliatrice facesse un nobile gesto di riguardo verso il fiero libertario evitandogli di vivere una trista stagione, che andava annunciandosi, di offese e distruzioni verso l’Ideale.

                                                                       Piero Chicca


                                                                           ***

Questi due sonetti del caro Bertelli, a parte il concetto che non tutti potrebbero approvare, per la loro ispirazione poetica valgono molto. E, anche oggi, tanti scribacchini del verso invidierebbero l’estro che natura aveva elargito a questo Cigno del Serchio. Maestro Valapini


A Giosue Carducci

Nel rovistare il “Satana” ti vidi
Sull’ali del saper genio raggiante,
Con la vindice spada saettante
Rader la testa a Giove e suoi più fidi.
Or non comprendo se tu piangi o ridi,
Ora pigmeo mi sembri, ora gigante;
Ma non creder mia mente delirante
Da non scernere il polo, ove ti assidi.
Quant’eri bello nella tua “Versaglia”,
Allorché, in vetta all’eliconio monte,
Fulminavi la nobile canaglia!
Or ti ravviso, qual Gemin bifronte,
Ora vulcano, che vestito in maglia,
Tenti sanar le piaghe del Piemonte.


A Felice Cavallotti

Quante illusioni e quanti disinganni
Nel breve corso della vita mia!
Del mio passato i lacerati panni
Rimpiango, amando l’umana genìa.
Se i vostri avessi o del Carducci i vanni.
Nuova impiantar vorrei filosofia…
E scettri e mitre dagli odiosi scanni
Travolgere con epica armonia…
E dai giacigli l’avvilita plebe
Destar vorrei con modo, non leggiadro
Ma animare vorrei perfin le glebe.
E di Proudhon, delucidando il quadro.
Io vorrei dire in questa iniqua Tebe:
O suda il pane, o alla lanterna, ladro!

(La vita di Cecco Bertelli, per chi la vole intende, è questa. La poesia l’arricchisce di molto ma a brillare più della letteratura è la fede nell’uguaglianza. Piero Chicca)



                                        UN VECCHIANESE ALLA COMUNE DI PARIGI

Di Francesco Giuseppe Bertelli nato a Vecchiano il primo febbraio del 1836, e detto “Cecco” dai paesani, rimane traccia nel Dizionario bibliografico degli anarchici pisani - che ha compilato la Biblioteca Franco Serantini di Pisa – e in una via del paese dove nacque e morì che porta il suo nome e che va verso la campagna. Chi fu dedito alle storie di paesani, che contrastarono il re sabaudo e i suoi carabinieri pronti a sparare contro gli scioperanti, ha trasmesso alcuni aneddoti sulla sua vita di tenente garibaldino a Mentana e al seguito di Garibaldi in terra di Francia nella guerra Franco-prussiana e successivamente come difensore della Comune di Parigi. Cecco il suo governo lo incarcerò, perché organizzatore di circoli operai e diffusore di volantini contro la pena di morte. Muore in una silenziosa mattina di marzo del 1919. Il gran freddo attanagliava gli argini del Serchio con una fitta nebbia e gli alberi di piazza Garibaldi erano stecchiti. Tre anni dopo, alle notizie che venivano da Roma dove il capo dei fascisti Benito Mussolini aveva ricevuto l’incarico di capo del governo con la sua marcia squadrista, in molti commentarono: «Meglio che Cecco sia morto prima di vedere quegli assassini al governo dell’Italia». Cecco fu anche poeta traendo a sé, come molti allora nel movimento anarchico, la vena del primo Carducci che se la prendeva con i preti e i re. Le sue poesie sono andate per lo più disperse. Qui ci preme ricordarne una dedicata a Pio IX, che per quelli come Cecco altro non era che un papa impiccatore di garibaldini e di patrioti. (Claudio Di Scalzo, 2006 discalzo@alice.it )


A Pio IX

Nato al delitto de’ tiranni in seno
Visse e regnò, della natura a scherno;
Alle fonti dell’odio ogni veleno
Bevve per farsi cittadin d’averno.

Dalle umane virtù fu sempre alieno,
Patteggiò con l’infamia in modo laterno
Poi, nell’età decrepida, il baleno
Della morte lo pinse nell’inferno.

Nella più tetra e ognivome caverna
Che la chiamano albergo del dolore,
L’imperterrito re, che mal governa,
Lo piombò, saettando, con furore...
E con le zanne, dove Giuda averna,
Gli squarciò il petto e si cibò del core.


Piero Chicca (Vecchiano, 1946). Vive e lavora a Vecchiano. Ha pubblicato Il mondo del mamai, Felici Editore 1999; Almadoc, centosessant’anni di cronaca vecchianese, Felici Editore, 2000; Lo Scrocci, Biblioteca Franco Serantini, 2001. Su Tellus n. 20, “Metafore locali, la cultura dell'autonomia”, assieme a Claudio Di Scalzo, ha pubblicato un “Elenco alfabetico di celebri soprannomi di provincia”.

Biblioteca Franco Serantini - Largo Concetto Marchesi - 56124 Pisa
phone: ++39 050 570995
e-mail: biblioteca@bfs.it  



   

venerdì 7 maggio 2010

Giorgio Marianetti: Caro Accio, ti racconto questa storiella del mi' nonno Leonido




                                                                  Torre campanaria


                                                                LE DUE CINTOLE

Caro Accio,... quando si parla di storie vecchianesi mi vengono sempre in mente storie divertenti, come quella che mi raccontò mio nonno Leonido, di quei due vecchi al bar repubblicano... uno per farsi pagare il corretto disse all'altro, si fa una scommessa chi ha la cintola più brutta paga il corretto. Va bene disse l'altro. Al che il primo disse: guarda cio' un cordino; e l'altro rispose: allora hai perso perche' io ciò una vetta.

                                                                            Giorgio Marianetti


Vetta: Rametto d'albero facilmente piegabile.



    

giovedì 6 maggio 2010

Renato Fucini: Perla, racconto da "Le veglie di Neri"



              Ardengo Soffici, "Paesaggio toscano", 1947








Renato Fucini

   PERLA

 «Secondo me, siccome son tre o quattro giorni che non fa altro che passar militari che vanno alla finta battaglia, questo qui lo deve avere smarrito di certo qualche uffiziale, perché, lo so, que' signori ci ambiscono a tenere di questi animali buffi. Ma guardi com'è festoso! Io lo terrei magari per me, ma è proprio un peccato che non abbaj punto, perché io sul barroccio ho bisogno di tenerci un cane che quando s'accosta gente si faccia sentire, se no, addio la mi' roba. L'avrebbe a pigliar lei, vede. E a lei glielo do volentieri anche per nulla.»
Così mi diceva una mattina Pasquale barrocciaio, che incontrandomi per la strada aveva fermato il mulo per mostrarmi un bel cagnolino da lui trovato la sera avanti sul greto d'Arno, mentre era per buttarsi nell'acqua e traversare il fiume a guado.
«Lo prenderei tanto volentieri», risposi, «perché dopo esser così festoso è anche d'una razza molto rara; ma, che vuoi? fra grossi e piccini ce n'ho cinque per la casa, e non ho voglia davvero di mettermi d'intorno un'altra di queste seccature.»
«Guà! mi rincresce. A lei signoria gliel'avré dato dimolto volentieri.»
«Ti ringrazio, Pasquale.»
«O andiamo. Dunque, mi comanda nulla lei, di lassù?»
«Se vedi il sor Luigi e il sor Roberto, salutameli tanto.»
«Non pensi, sarà servito. A rivederlo signoria. Là, Giovanni, là, s'è fatto tardi.»
E accompagnando con una frustata queste ultime parole che erano rivolte al suo mulo, si allontanò.
Quello che segue, lo seppi qualche giorno dopo.
Circa due miglia lontano dal punto dove c'eravamo lasciati, Pasquale trovò da esitare il cane per una dozzina di carciofi a una famiglia di contadini che stavano lungo la via maestra. Concluso il contratto con la consegna del cane da una parte e dei carciofi dall'altra, il capoccia chiese al barrocciaio:
«Dico bene: o come si domanda egli quest'animale?».
«Io lo chiamavo Pillàcchera, perché quando lo trovai era più lercio del fruciandolo del forno; ma se poi questo nome non vi garbasse...»
«E allora si chiamerà Pillàcchera anco noi. To', Pillàcchera, to'.»
E il canino corse a leccare la mano del nuovo padrone che lo menò in casa.
Il povero Pillàcchera non dette nel genio al resto della famiglia: ed anche lo stesso capoccia, dopo il mezzogiorno, aveva già cominciato a lavorare di pedate alla sua usanza, perché l'aveva visto ricusare un pezzo di pan nero e non aveva voluto abbaiare dietro al calesse del fattore.
Ai giovani non piacque, perchè quando si doveva prendere un cane, dissero loro, era meglio prenderlo da caccia.
La massaia poi era implacabile. Con quella dozzina di carciofi attraverso all'anima, diceva che cani a quella maniera non n'aveva mai visti; ma sopra tutto, poi, quel pelo lungo che gli nascondeva affatto gli occhi, era per lei qualche cosa che non le voleva andar giù in nessuna maniera.
Pillàcchera passò la giornata fra 'l dolore d'una pedata e la paura d'averne un'altra. Finalmente, sulla sera, la famiglia si radunò tutta in cucina per la cena. Dopo aver messo in tavola il tegame della minestra, la massaia s'accostò al capoccia che stava pensieroso nel canto del fuoco, e gli disse in tono burbero all'orecchio:
«O voi l'avete preso l'ulivo benedetto?».
«Per che farne?»
«A voi; e tenetevelo addosso, vecchio grullo! e datene una foglia per uno anche a que' ragazzi.»
Si misero a tavola serî e molto sospettosi, serrandosi l'uno addosso all'altro, perché ormai, col calar della sera, s'era fortemente insinuato nell'animo di tutti il dubbio d'essersi messi le streghe in casa. Masticavano scongiuri, facevan corna ad ogni momento, e pareva loro mill'anni d'arrivare in fondo alla cena per dire il rosario.
In un momento di silenzio, Pillàcchera, che s'era rintanato sotto la madia, stimolato dalla fame, escì di là sotto adagio adagio e inosservato; e cercando forse di mettere a profitto una delle sue abilità per intenerire i nuovi padroni, si mise in mezzo alla stanza, ritto sulle gambe di dietro.
Un grido straziante escì dal petto della massaia; tutti impallidirono e quasi fuori di sé si precipitarono spaventati, facendosi segni di croce e urlando «misericordia!», verso un crocifisso che pendeva ad una parete della stanza.
Pillàcchera rientrò spaurito sotto la madia.
«Animo, Angiolo!», disse il capoccia al maggiore de' suoi figlioli. «Io, con quell'animale in casa la nottata non la passo. Fànne quel che ti pare, ma levamelo di lì.»
Angiolo non rispose.
Il capoccia che intese di che si trattava, replicò:
«Se hai paura, piglia con te chi ti pare, ma levami quella bestia di casa, se no mi danno».
Angiolo legò il cane con una cordicella e s'avviò, strascinandoselo dietro, verso l'uscio, fra le imprecazioni dei rimasti, mentre la massaia non trovando altro che le venisse alle mani o forse annettendoci qualche importanza antidiabolica, si levò uno scarpone di vacchetta e lo tirò con tanta rabbia contro il povero Pillàcchera, che lo ridusse ad allontanarsi zoppicando e mandando lamentosi guaiti.
Angiolo ed il suo compagno tornarono presto e con aria molto soddisfatta; la cena fu terminata tranquillamente, ed il rosario, cotesta sera, fu detto di quindici poste.
Il giorno dipoi, su tutte le cantonate del paese vicino si leggeva quest'avviso:
 
"Quattrocento lire di cortesia a chi riporterà al Comando militare una cagnolina maltese di pelame bianco finissimo, che risponde al nome di Perla. Oltre che alla detta somma, colui che la riporterà, avrà diritto alla imperitura gratitudine del proprietario".
  
Passarono tre giorni, e nessuno comparve al Comando militare.
Intanto, nella famiglia dei contadini, dopo che ebbero saputo dell'avviso, seguirono violentissime scene che dettero poi motivo al padrone di licenziarli dal podere ed alla massaia di convincersi sempre più che il diavolo in forma di cane era stato in casa sua.
Quello stesso giorno fu veduto un Colonnello d'artiglieria percorrere ansante le vie del paese, parlare concitato con Pasquale e dopo poco, con aria lietissima, entrare con lui in un legno di vettura e prendere la via della campagna.
Il vento della mattina, impregnato del profumo dei fiori di mandorlo, si divertiva ad arruffare i folti baffi del Colonnello, tutto buonumore, offrendo a Pasquale un sigaro d'avana gli domandava:
«Che è molto distante?».
«Neanche quattro miglia. In una mezz'ora siamo lassù.»
«E l'avranno sempre loro, ne siete proprio sicuro?»
«Perdinci bacco! o che n'hanno a aver fatto?»
In un trasporto d'allegrezza il Colonnello abbracciò Pasquale; gli parlò dell'affezione di sua figlia per la piccola Perla e dello stato di disperazione nel quale da tre giorni si trovava; lodò il sistema toscano della mezzeria e parlò con entusiasmo dell'indole mite e de' costumi semplici e patriarcali de' nostri contadini.
Il cavallo intanto divorava la via a trotto serrato, e dopo poco, di sopra ad una svoltata a secco della strada, dalla quale si dominava la vallata, Pasquale gridò:
«Eccola laggiù!».
«Chi?», domandò con impeto il Colonnello.
«La casa...»
Dieci minuti dopo erano già arrivati. Il Colonnello tirò fuori il portafogli perché era impaziente di ricompensare, così diceva lui, quelle buone creature; saltò dal legno e tutto lieto corse incontro alla massaia che era comparsa arcigna sulla porta. Dopo che ebbero scambiato fra loro poche parole, la massaia rientrò in casa brontolando e voltandosi indietro a squadrare sospettosa il Colonnello che immobile e taciturno era rimasto a guardarla con le braccia incrociate sul petto.
Pasquale, che aveva osservato attento quella scena scacciando le mosche al cavallo: «Dio del cielo!», gridò a un tratto spaurito, «o che è stato?».
«Queste buone creature!...», esclamò il Colonnello con angosciosa ironia. «Queste buone creature!» E stringendo convulsamente il portafogli, tornò frettoloso alla vettura...
La povera Perla, sotto il nome di Pillàcchera, già da tre giorni dormiva accanto alle radici d'un olivo, con la testa fracassata da un colpo di vanga.
  
In quella casa ora ci si sente, e nessuno dei dintorni s'azzarderebbe a dormir solo in una certa camera, nemmeno per tutto l'oro del mondo. Eccone le cause.
Dopo quel fatto, ogni volta che un cane passava davanti alla casa del contadino, tutti gli uomini gli erano dietro per prenderlo: ma per qualche tempo fu possibile d'agguantarne nemmeno uno. Finalmente uno si lasciò prendere, ma con gran fatica, e dopo aver addentato ripetutamente il capoccia alle gambe ed alle mani.
Costui aspettò ansioso il desiderato avviso su le cantonate, ma comparve invece un certo malarello che in tre giorni lo mandò nel mondo di là, senza che nemmeno al Priore potesse riuscire di fargli prendere l'ostia consacrata.
«Neanche nell'acqua! capisce?», mi diceva Pasquale con gli occhi stralunati dallo spavento, «neanche nell'acqua, Dio del cielo! ci fu verso di fargliela ingozzare! E quando la vedeva: mugli che pareva un liofante... Arrabbiato?... O senta, veh! il dottore è padrone di dire quel che gli pare e piace; ma quello lì, e giocherei la testa, è morto, Gesù ci liberi tutti, dannato!»

                                                           


   

lunedì 3 maggio 2010

Piero Chicca-Claudio Di Scalzo: Elenco alfabetico di celebri soprannomi di provincia



                                                       Libertario Di Scalzo detto Lalo 
(1921-1995)






Su Vecchiano e sulla Piana del Serchio ho raccolto in vernacolo storie surreali, bugie, ninne nanne, filastrocche, soprannomi. Ho chiamato questo pacco di fogli "II Mondo del Mamai”. Claudio è un amico che, in lunghe serate invernali, ha condiviso con me un viaggio attorno alle nostre comuni radici. A volte abbiamo riso a tutto spiano per il solletico che davano, altre volte ci siamo commossi perché buavano. (Piero Chicca)

Ho sempre avuto una forma di attrazione verso il soprannome forse perché è per me nello stesso tempo e la forma più esemplare di un singolo e il segno minimale di un vissuto in corso o cessato. Più di azioni nobili o infami, mediocri o esaltanti, incolori o ruggenti, il soprannome mi restituisce il residuo di un’esistenza almeno quanto un osso può dare l’idea di polpa, di nervi, di sangue. L'elenco alfabetico di soprannomi del mio paese, di Vecchiano, sistemati da Piero Chicca, mi dà l'opportunità di rimpolpare dei segni che di sicuro sorreggono, più di quanto ne abbia coscienza mentre scrivo, la mia costituzione provinciale. (Claudio Di Scalzo)




ELENCO ALFABETICO DI CELEBRI SOPRANNOMI DI PROVINCIA

Agonia raccontò sempre le sue malattie immaginarie riducendo il volto a una maschera di mistica sofferenza. Nel paese non lo videro mai ridere. Solo in punto di morte rise in modo stridulo e gorgogliante, ma tutti pensarono che fosse la sua ultima ed estrema malattia.

Buaceci faceva collane con i ceci e per questo bucava i legumi. Li metteva poi al collo della fidanzata e li sgranocchiava facendo cadere i residui e la saliva su dei seni prosperosi.

Candele non si soffiava mai il naso e il muco gli colava sulle labbra e il mento. A volte scherzando lo faceva filare fin quasi a terra per poi tirarlo su, farlo scendere in gola e sputarlo sul muro.

Dollaro faceva il mercato nero, e siamo nel 1946, con i soldati neri della Divisione Buffalo accampati nella pineta di Tombolo presso Livorno. Una vera e propria città nera con commerci innominabili, prostituzione, omicidi e ricatti. Dollaro comprava calze di nylon dagli americani bianchi e le rivendeva alle prostitute bianche italiane protette dai neri. Realizzò pacchi di dollari che investì nel commercio dei giganteschi camion da trasporto americani. Da uno di questi, mentre contava i dollari umettandosi l’indice, fu investito e stritolato. I dollari volarono per aria e dalla sua tuta sbrindellata si scopri che indossava calze a rete.

Ergastolo si era fissato con il bandito Giuliano e le sue imprese, anche perché avevano lo stesso nome, una forte somiglianza e la stessa passione per le doppiette e gli stivali lucidi. Scrisse al Presidente della Repubblica per affermare solennemente che Giuliano la strage di Portella della Ginestra non l'aveva commessa perché quel giorno era a letto con una svedese. La sua incrollabile convinzione nasceva da un fatto molto, ma molto privato, infatti Giuliano nei momenti cruciali faceva sempre le stesse cose del suo doppio, di lui Ergastolo insomma, che proprio in quel giorno tragico, a centinaia di chilometri di distanza dalla Sicilia stava facendo l'amore con una svedese conosciuta a Marina di Vecchiano.

Farfalla da piccolo rincorreva sempre le farfalle sui prati senza riuscire a prenderne neppure una. Un giorno nelle sue corse a naso all’insù cadde in una buca profonda e si spezzò la colonna vertebrale. Da quel giorno stette seduto sopra la carrozzina a rotelle dentro una camera angusta, e per farlo contento gli portavano farfalle dalle ali frementi che lui, con uno spillo, inchiodava sull'armadio. Ne aveva attorno centinaia e ogni giorno diceva loro: volate, volate, perché non volate?

Gesù-nel-bicchiere aveva sviluppalo un'eresia particolare affermando che lui si comunicava non coll’ostia ma con il "ponce' alla livornese e che lì, nel liquido misto di caffè e di cognac, Gesù gli sorrideva benedicente. Se qualcuno avesse trascritto le sue prediche dal terzo ponce in avanti avrebbe avuto pena, nel rileggerle, del suo destino di spretato.

Impregnamosche era alto di statura ed esile e la sua pelle tirata sulle tempie faceva intravedere delle venuzze. Si curvava nel parlare verso l'interlocutore e roteava gli occhi ridendo da solo alle sue melenserie con una specie di soffio acuto. Sembrò ai vecchianesi uno di quegli insetti a forma di sigaro che è facile incontrale sulle paludi del Lago di Massaduccoli? Forse, perché appena asserì di avere messo incinta la fidanzata, gli risposero che col suo sesso microscopico al massimo avrebbe potuto impregnare una mosca.

Lalo era il soprannome di mio padre. O meglio una sorta di nuovo nome in sostituzione di Libertario che il fascismo gli impose di dimenticare e ai compaesani di non chiamarcelo più. A mio padre, che ebbe tempo un paio di giorni per comunicare alla sede del Fascio il nuovo nome, venne in mente una vecchia rivista lasciata anni prima da parenti emigrati in Francia e che parlava di un'opera, "Il Re d’Ys" del compositore Edouard Lalo. E così scelse di chiamarsi come un musicista per resistere al fracasso di una ideologia che calpestava il suo vero nome.

Libeccio crebbe attaccabrighe e preda di scatti nervosi che lo portavano a scrocchiare furiosamente le dita prima di menare pugni all'avversario di turno. Per tenerlo calmo lo convincevano a giocare a carte, ma volendo sempre vincere le partite, se il punteggio non lo soddisfaceva, rovesciava per terra il tavolino come il libeccio fa, avventandosi sulla spiaggia di Marina di Vecchiano, contro le sedie e gli ombrelloni

Si trasmettono il soprannome di padre in figlio e in genere sono alti un metro e mezzo e pesano molto poco. Da qui il soprannome Mezzochilo portato con stolida indifferenza e un misto di arditezza. E questo anche perché i mezzochilo sono simpatici, tenaci e resistenti a ogni malattia e fatica.

Moro di capelli, scuro di pelle, con occhi neri e torvi stava indolente in cucina estate e inverno a fissare, dal riquadro della porta aperta sulla strada, i passanti. Neritopo lo chiamavano i bambini strillando dalla via e fantasticavano che a notte uscisse per insane gesta e terribili riti.

Ovaino vendeva le uova e lo faceva con una grazia tutta femminile nel porgerle con le sue dita lunghe e affusolate dalle unghie nere e spezzate. Ovaino, ovaino, lo vuoi un bacino? Lo canzonavano gli uomini a vederlo passare di piazza.

Pesaappelli rifiutava qualsiasi lavoro manuale. Troppo pesante per me, diceva fantasticando una scrivania o più semplicemente un'improvvisa ricchezza di la da venire. Tanto si dilatò la leggenda della sua fuga, a costo della fame, dal ruolo di creatore di plus-valore con la forza delle braccia in qualche fattoria o cantiere, che i suoi più creativi detrattori sostennero che anche nell'acquisto del cappello sceglieva, soppesandolo, il più leggero.

Il capostipite della genia dei Quarantaquindici non conosceva i numeri oltre il 49 e quando da bambino lo mandarono nel campo a contare i covoni del grano lui contò quarantanove, quarantadieci, quarantaundici, e riferì che erano quarantaquindici.

Repubbria, novantenne, repubblicano storico che diceva di aver partecipato alla presa di Porta Pia, usciva di casa ogni mattina con la sua seggiolina, il tascapane a tracolla e andava a sedersi davanti al monumento di Garibaldi finché non veniva buio. Conversava tutto il giorno con la statua. Nessuno udì mai cosa si dicessero. Però, se pioveva, piangevano entrambi.

Il bambino diventò Settefette perché alla maestra che gli domandava cosa avesse mangiato il giorno prima rispondeva immancabilmente… polenta. Quanta?, chiedeva la maestra di matematica. Settefette, diceva il bambino. E si vergognava a nominare sempre lo stesso cibo, si vergognava fino alla disperazione. - Mamma, come posso fare? - Digli che hai mangiato la pastasciutta. Il bambino ringraziò e decantò fra sé la furbizia della madre che però lui, il giorno dopo, dimostro di non avere ereditato.

- Cosa hai mangiato?

- La pastasciutta.

- Quanta?

- Settefette.

Treppiavetri dormiva con le scarpe perché aveva paura di sognarsi di camminare su cocci di bottiglia e schegge di vetro.

Uticchio si chiamava di nome Eutichio che significa fortunato. Però lui era storpio. Uticchio lavorava come garzone da un macellaio e con le cotiche attirava i cani in bottega per tagliare con un coltellaccio, a quelle povere bestie, i tendini delle zampe posteriori. Poi, con una pedata, li gettava in strada e rideva a sentirli guaire mentre si trascinavano nella polvere.

Vento era uno scienziato dilettante e asseriva che tutto nel mondo era semplice e che l'uomo complicava ogni aspetto della vita. Lui applicò la sua teoria al problema dei problemi per un toscano: raddrizzare la Torre Pendente. Sostenne, dopo ampie osservazioni, che la Torre si era storta a ponente per colpa del vento di levante. Il libeccio l’avrebbe raddrizzata se solo i pisani avessero abbattuto le mura attorno a Piazza dei Miracoli che impedivano al vento di fare il suo mestiere. Morì proprio pochi giorni dopo aver trovato un italoamericano, in visita a Pisa, disposto a pubblicizzare sui giornali di Topeka City la sua teoria.

Avendo il volto bianchiccio, segnato da delle voglie nerastre sul mento da un orecchio all’altro e da una più filiforme, che gli tagliava l’occhio destro e la guancia, lo chiamarono Zebra. E come una zebra fuggiva chiunque gli si avvicinasse, per nascondersi nel suo orto fra le canne che sorreggevano i piselli.



Da Tellus 20, Metafore locali, la cultura dell'autonomia. 1998. Euro 5,00. La rivista Tellus è stata diretta da Marco Baldino dal n.1 al numero 22 e da Claudio Di Scalzo, come annuario, dal numero 23 al numero 30. Con il numero 30 Tellus ha concluso il suo ciclo e la sua riflessione filosofica e letteraria. 





Claudio Di Scalzo detto Accio: Che cos'è Vecchiano un paese



                         Piazza Garibaldi per la Fiera. Dietro la chiesa la casa di Accio





Claudio Di Scalzo detto Accio

CHE COS’E’ VECCHIANO UN PAESE E COSA SARA’



Vecchiano un paese, prima di esordire come Weblog è stato un fortunato libro, pubblicato da Feltrinelli, nel 1997, il cui genere potrebbe definirsi album fotografico epistolare, perché composto da lettere con fotografie di Vecchiano spedite ad Antonio Tabucchi, vecchianese come me. 

Infatti il titolo feltrinelliano è Vecchiano, un paese. Lettere a Antonio Tabucchi








Negli anni passati, Vecchiano un paese, on line, è stato sovente la cornice per accogliere racconti vecchianesi, foto, frammenti di biografie e storie, personaggi, e opere creative in arte, fino alla drammatica esondazione del Serchio di fine 2009. 

Il Weblog Vecchiano un paese, diventerà uno spazio GLOCALE, dove le vicende di vite illustri e non illustri, di fatti grandi e piccoli, con la collaborazione di vecchianesi in loco e di vecchianesi all’estero, come nel mio caso (abito in Valtellina) daranno voce e trame narrative e punti di vista a quella parte di terra tra la Torre Pendente e la Torre ghibellina campanaria di Vecchiano, tra l’Arno e il Serchio, tra il Lago di Massaciuccoli Puccini e il mare. 

Le vicende della provincia sono state per anni indagate dalla rivista TELLUS, fondata nel 1990, e dunque anche materiale proveniente da questa avventura su carta stampata (che ha cessato la sua vita editoriale con il numero 30 nel 2009) sarà ospitata sul Weblog Vecchiano un paese

In calce, da strapaesano telematico - inteso come scrittore che intende recuperare la linfa che fu anche di Giusti e Collodi, Maccari e Malaparte, Viani e Tozzi, Bilenchi e Cassola - mi firmo con soprannome e richiamo alla figura del padre. 


Claudio Di Scalzo detto Accio figlio di Lalo