sabato 8 maggio 2010

Francesco Giuseppe Bertelli detto “Cecco" anarchico di Vecchiano

  


Cds, "Cecco Bertelli", disegno su carta, 1989


                                                      L'ANARCHICO DI VECCHIANO

Francesco Giuseppe Bertelli nacque a Vecchiano il 1° febbraio del 1836, quando la torre ghibellina del paese, riconvertita in campanile della chiesa, guardava come oggi verso la pineta e poi al mare, ma ampi erano gli acquitrini e le zone paludose in questa parte della valle del Serchio, vista da lassù. Cecco più che il paesaggio fissava il sole repubblicano e sociale del proletariato. Presto la sua vocazione risorgimentale divenne anarchica e confidò di raggiungere la Comune di Parigi nel 1871 per mischiare il suo vernacolo vecchianese con quello del proletariato parigino. Tanto, una camiciola rossa e un berretto su una divisa di soldato del proletariato, facevano intendere ciascuno lì accorso. Ritornato al paese viene incarcerato ma non demorde e scopre nella poesia, in certi versi accesi e di protesta, una vena che vale quanto una ribellione insurrezionale. Ne pubblichiamo alcuni. Il personaggio proletario più illustre di Vecchiano ha oggi una sua via nel paese, anche per l’impegno di Piero Chicca che ne ha ricostruito le vicende. Chicca, che lavorava all’anagrafe del Comune, districandosi fra cenni biografici, date in vita e in morte e luoghi che mutano a seconda dei vissuti che ospitano, ha curato pregevoli antologie sui modi di dire vecchianesi e financo sui soprannomi e racconti sui personaggi di Vecchiano.
L'anarchico vecchianese compare anche nel prezioso libro di Franco Bertolucci. Anarchismo e lotte sociali a Pisa 1871-1901, Dalla nascita dell'Internazionale alla camera del Lavoro edito dalla Biblioteca Franco Serantini di Pisa nel 1988.


                                   LA RIBELLIONE DELL'ANARCHICO CECCO BERTELLI 

Francesco Giuseppe Bertelli nasce a Vecchiano (Pisa) il 1° febbraio del 1836. Volontario nella Terza Guerra d’Indipendenza (1866). Tenente garibaldino a Mentana (1867). Segue Garibaldi in Francia nella guerra Franco-Prussiana.
Dopo gli eventi della Comune di Parigi torna a Vecchiano (1871).
A Vecchiano promuove la costituzione dell’Unione Democratica Sociale. Sempre sorvegliato dalla polizia viene ripetutamente arrestato per la sua propaganda definita “sovversiva”. Nel 1875 viene incarcerato perché sorpreso a distribuire copie di una sua poesia contro la pena di morte.
L’esperienza francese e gli echi della tragedia dei comunardi lo tocca profondamente e a testimonianza di ciò scrive una celebre poesia dal titolo “Esame d’ammissione del volontario alla Comune di Parigi” della quale resta nella memoria locale vecchianese una libera riduzione dal titolo “Dimmi bel giovane”: «Dimmi bel giovine/ onesto e biondo/ dimmi tuo dio tua patria qual è/ Adoro il popolo/ mia patria è il mondo/ il pensier libero è la mia fe’/ (…)».
Scrive numerose altre poesie in parte perdute.

(Dal Dizionario bibliografico degli anarchici pisani. AA.VV., Edizioni Biblioteca Franco Serantini, Pisa 2003)

Questo per la storia ufficiale del movimento operaio: uno delle migliaia di libertari perseguitati, sbandati e dispersi, ai quali resta associato un pen-siero romantico. Ma a Vecchiano Cecco Bertelli che per le sue doti poetiche venne definito dall’amico maestro Valapini, preso da slancio incontenibile “Il cigno del Serchio”, fu simbolo di rivolta, con variabile purezza alata, e stimolo a pensieri di aperta ribellione. Poi divenne un mito. In seguito e più prosaicamente fonte d’aneddoti... Poi più niente.
Fin da ragazzo rinunciò alla scuola «fatta per deferenza al re e alla chiesa e che ammaestra solo ad avvincar la schiena»; e preferì seguire il mestiere del padre, il fabbro-maniscalco. Figura esile e delicata, quasi un dispetto all’immagine solita dei fabbri con braccia come tronchi d’albero, «addomesticava il ferro» e divorava libri. Se c’erano occasioni di propagandare la sua fede non ne perdeva una, se non c’erano le creava. Al passaggio di una processione religiosa, fingendo di litigare col padre, sparpagliò fuori della bottega tutti gli arnesi e si mise a lavorare in mezzo alla strada. La processione poté passare solo dopo l’arresto del “satanasso”, ma nel frattempo si era sfollata e ridotta a uno sparuto codazzo di volenterose beghine. Il gesto gli costò cento giorni di galera. Per tutto questo tempo il prete lo trassinò dal pulpito e Cecco meditò di fargliela pagare alla prima occasione. Un giorno che lo vide arrivare, arroventò un palancone, lo gettò in mezzo alla strada e si nascose dietro l’uscio di bottega ad osservare la scena. Quando il prete vide la moneta si guardò intorno furtivo e la raccolse, ma subito la lasciò col palmo della mano abbrustolito. Cecco spalancò la porta e gli lanciò una delle sue sarcastiche quartine che poi trascrisse e affisse a un platano in piazza. Una notte, a Pisa, di ritorno da un convegno segreto incontrò una ronda di carabinieri che gli chiese conto del suo vagare notturno.
«Vengo da una riunione di libertari», disse stringendo il manubrio della bicicletta, a voce alta.
«Di libertari? Ah, complimenti! E c’era per caso anche un certo Francesco Bertelli?» chiese l’uniforme impettita.
«Quando c’ero c’era», rispose Cecco sogghignando.

Questo era il Cecco degli aneddoti, ma Francesco Bertelli fu soprattutto uomo di profonda fede libertaria. Sempre in prima linea, sempre vocato all’impegno politico a favore del proletariato e di conseguenza sempre tormentato e preso di mira dalle “autorità”, sia che andasse in bicicletta col buio o che scrivesse versi parodistici o che facesse circolare qualche giornale sgradito ai potenti del luogo. Generoso fino a privarsi dell’essenziale per aiutare il prossimo anche senza esserne richiesto e magari affidandosi all’anonimato.
Sulla sua solidarietà, poi, per chiunque si battesse per la giustizia e per il lavoro ognuno ci poteva contare come sulle lancette dell’orologio che girano senza tentennamenti. Nell’anno 1900 organizzò un raduno di superstiti garibaldini che in divisa e in cospicuo numero (pare oltre sessanta) vennero a Vecchiano a deporre una corona alla lapide di Antonio Fratti ascoltando l’Inno di Garibaldi e la Marsigliese. Durante la manifestazione Cecco raccolse offerte per le famiglie dei caduti garibaldini.
Sentendo insopportabile lo scherno dei maggiorenti di Vecchiano, perbenisti e benpensanti, e indigeribile la scomunica del prete, sfidò questi e quello a un pubblico tenzone sulla piazza del paese. Naturalmente nessuno raccolse la sfida, ma lui tenne ugualmente la sua invettiva con un surreale dialogo con la statua di Garibaldi. Rivolgendosi al suo generale lo chiamava “Mondo”, “Tuttoté”, “Leone”. E come un leone feroce ma maestoso lo esortava a scendere dal piedistallo e a «disperdere iene e sciacalli», «adoratori del denaro», «conculcatori dei diritti di libertà e di uguaglianza», per liberare l’umanità dai «malefici ministri delle tenebre e della superstizione», tanto ottusi e calcolatori da esser diventati dei «traditori di Cristo per aver più a cuore piaceri mondani e ricchezze». Le parole di Cecco in questo dialogo con la statua, tramandato negli anni dalle veglie attorno ai camini, avevano qualcosa di parossistico nel loro esaltato candore.
Definì il clero reazionario come «vermi roditori delle coscienze giovanili» usando proprio le stesse parole del condottiero dei due mondi, tanto le sapeva a memoria, e terminò con esortazioni rauche e ultimative: «Smurati Beppe! scendi! ciriènno! ci rivoi! ma questa volta alla larga dai Savoia!».
Però lasciando la piazza alzò un braccio e senza voltarsi salutò Garibaldi con un ironico «Addio libeccio» e a capo chino s’allontanò fra gli applausi della folla. Solo il suo amico maestro capì il saluto e la sua rassegnata mestizia. A Vecchiano si dice che il libeccio dura tre giorni e lascia il tempo che trova. Così anche i suoi infuocati richiami sarebbero passati senza lasciare troppa traccia.
Cecco non ebbe figlioli e restò vedovo a sessantaquattro anni. Mia nonna, sua pronipote (figlia della nipote Argentina) lo accudì fino alla morte, diventò la sua pupilla e restò depositaria della sua volontà di essere “bruciato” dopo morto. Ricordava vagamente una rima incompleta che diceva più o meno così: «O falso tenebroso tempio/ Morir si mòre tutti non se n’esce/ Ma quel che più mi dòle e mi rincresce/ È di finir nelle laide lezze mani/ di Bibe e di Tabesce».
La pronipote si adoperò perché il desiderio dell’uomo fosse rispettato e non avvenisse come per Garibaldi. Ma i compagni anarchici pisani anch’essi depositari della medesima volontà già avevano tutto predisposto.
La maggior parte delle notizie (frammentarie e forse in parte anche imprecise) sullo Zi’ Cecco le ho apprese proprio da mia nonna. Mi raccontava che da bambina ebbe in dono dallo zio la divisa garibaldina che lei conservò con cura nella “carbonina” finché un giorno, nel ventennio, qualcuno si adoprò perché scomparisse e lei non seppe mai darsene pace. Io ho cercato di rintracciare questa laica reliquia seguendo le memorie della parente. Sono quasi arrivato a riaverla fra le mani per depositarla sulle radici del ceppo familiare, ma poi è svanita ancora.
Cecco se n’andò una gemente mattinata d’ottobre del 1919. Il suo amico Valapini volle in seguito credere che la Grande Uguagliatrice facesse un nobile gesto di riguardo verso il fiero libertario evitandogli di vivere una trista stagione, che andava annunciandosi, di offese e distruzioni verso l’Ideale.

                                                                       Piero Chicca


                                                                           ***

Questi due sonetti del caro Bertelli, a parte il concetto che non tutti potrebbero approvare, per la loro ispirazione poetica valgono molto. E, anche oggi, tanti scribacchini del verso invidierebbero l’estro che natura aveva elargito a questo Cigno del Serchio. Maestro Valapini


A Giosue Carducci

Nel rovistare il “Satana” ti vidi
Sull’ali del saper genio raggiante,
Con la vindice spada saettante
Rader la testa a Giove e suoi più fidi.
Or non comprendo se tu piangi o ridi,
Ora pigmeo mi sembri, ora gigante;
Ma non creder mia mente delirante
Da non scernere il polo, ove ti assidi.
Quant’eri bello nella tua “Versaglia”,
Allorché, in vetta all’eliconio monte,
Fulminavi la nobile canaglia!
Or ti ravviso, qual Gemin bifronte,
Ora vulcano, che vestito in maglia,
Tenti sanar le piaghe del Piemonte.


A Felice Cavallotti

Quante illusioni e quanti disinganni
Nel breve corso della vita mia!
Del mio passato i lacerati panni
Rimpiango, amando l’umana genìa.
Se i vostri avessi o del Carducci i vanni.
Nuova impiantar vorrei filosofia…
E scettri e mitre dagli odiosi scanni
Travolgere con epica armonia…
E dai giacigli l’avvilita plebe
Destar vorrei con modo, non leggiadro
Ma animare vorrei perfin le glebe.
E di Proudhon, delucidando il quadro.
Io vorrei dire in questa iniqua Tebe:
O suda il pane, o alla lanterna, ladro!

(La vita di Cecco Bertelli, per chi la vole intende, è questa. La poesia l’arricchisce di molto ma a brillare più della letteratura è la fede nell’uguaglianza. Piero Chicca)



                                        UN VECCHIANESE ALLA COMUNE DI PARIGI

Di Francesco Giuseppe Bertelli nato a Vecchiano il primo febbraio del 1836, e detto “Cecco” dai paesani, rimane traccia nel Dizionario bibliografico degli anarchici pisani - che ha compilato la Biblioteca Franco Serantini di Pisa – e in una via del paese dove nacque e morì che porta il suo nome e che va verso la campagna. Chi fu dedito alle storie di paesani, che contrastarono il re sabaudo e i suoi carabinieri pronti a sparare contro gli scioperanti, ha trasmesso alcuni aneddoti sulla sua vita di tenente garibaldino a Mentana e al seguito di Garibaldi in terra di Francia nella guerra Franco-prussiana e successivamente come difensore della Comune di Parigi. Cecco il suo governo lo incarcerò, perché organizzatore di circoli operai e diffusore di volantini contro la pena di morte. Muore in una silenziosa mattina di marzo del 1919. Il gran freddo attanagliava gli argini del Serchio con una fitta nebbia e gli alberi di piazza Garibaldi erano stecchiti. Tre anni dopo, alle notizie che venivano da Roma dove il capo dei fascisti Benito Mussolini aveva ricevuto l’incarico di capo del governo con la sua marcia squadrista, in molti commentarono: «Meglio che Cecco sia morto prima di vedere quegli assassini al governo dell’Italia». Cecco fu anche poeta traendo a sé, come molti allora nel movimento anarchico, la vena del primo Carducci che se la prendeva con i preti e i re. Le sue poesie sono andate per lo più disperse. Qui ci preme ricordarne una dedicata a Pio IX, che per quelli come Cecco altro non era che un papa impiccatore di garibaldini e di patrioti. (Claudio Di Scalzo, 2006 discalzo@alice.it )


A Pio IX

Nato al delitto de’ tiranni in seno
Visse e regnò, della natura a scherno;
Alle fonti dell’odio ogni veleno
Bevve per farsi cittadin d’averno.

Dalle umane virtù fu sempre alieno,
Patteggiò con l’infamia in modo laterno
Poi, nell’età decrepida, il baleno
Della morte lo pinse nell’inferno.

Nella più tetra e ognivome caverna
Che la chiamano albergo del dolore,
L’imperterrito re, che mal governa,
Lo piombò, saettando, con furore...
E con le zanne, dove Giuda averna,
Gli squarciò il petto e si cibò del core.


Piero Chicca (Vecchiano, 1946). Vive e lavora a Vecchiano. Ha pubblicato Il mondo del mamai, Felici Editore 1999; Almadoc, centosessant’anni di cronaca vecchianese, Felici Editore, 2000; Lo Scrocci, Biblioteca Franco Serantini, 2001. Su Tellus n. 20, “Metafore locali, la cultura dell'autonomia”, assieme a Claudio Di Scalzo, ha pubblicato un “Elenco alfabetico di celebri soprannomi di provincia”.

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