domenica 29 agosto 2010

Accio: L’incontro con Doriano Cima sulla panchina a Vecchiano

 




I TRE AMICI DI MIO PADRE LALO

Come scrittore ho scelto di farmi un fiocco sul bavero della giacca con le mie radici che rimandano a Vecchiano, alla piana del Serchio, a mio padre camionista, al mio soprannome Accio. E se uno fa questa scelta sa, che tornando nel suo paese le storie lo aspettano nella voce di un uomo, di una donna, di una casa dove c’è un angolo in ombra, un giardino, una strada che porta all’argine. Ieri tornavo da Pisa. Da un Internet point gestito da giovani del Bangladesh. In piazza a Vecchiano uomini in pensione, anziani, a conversare. Gente che non naviga, che non sta su Fecebook o nei weblog, ma sono sguardi corpi storie. Su una panchina ho visto tre uomini. E quei tre avevano storie per me. Tre amici di mio padre, di Libertario detto Lalo. Ho fermato la macchina. L’ho parcheggiata accanto alla chiesa di sant’Alessandro ricordandomi che devo passare a salutare Renato Melani, mio compagno di scuola alle elementari e medie, e ora parroco. E sono andato verso la panchina dove erano seduti Doriano Cima, Piero Bertelli e in piedi appoggiato al manubrio della bicicletta Averardo Luperini detto il Maccai.
Posso salutare tre amici di mio padre?
Uno ad uno ho stretto loro la mano, con forza. Quella di Doriano Cima tremava e allora ho capito perché se ne stava, piegato sulla panchina, lui tanto alto e robusto da sembrare un ercole un tempo quando eretto nella sua possanza spediva i camion degli spinaci a Milano in un piazzale sulla provinciale. Mi è sembrato un personaggio dello scrittore Elio Vittorini, quando parla di uomini Elefanti, un tempo possenti, che invecchiano. Lo fa nel Il Sempione strizza l’occhio al Frejus. Doriano è stato quello che con più lentezza mi ha riconosciuto, intanto che abbracciavo il Maccai, curvo per le ore passate sul camion in autostrada, e salutavo il Bertelli, che aveva un cerotto sul naso, ampio, forse frutto di qualche operazione che a una certa età s’impone o magari per un urto; non glielo ho chiesto, ho rammentato invece Giulio suo figlio con cui studiavo alla Ragioneria di Pisa e sua figlia Patrizia che conobbi bambina, bambola tra le bambole in un cerchio colorato allestito nella sua casa, e che ho reincontrato su Facebook grazie al weblog “Vecchiano, un paese”. Abbiamo conversato brevemente e ho raccontato cosa faccio a Vecchiano, di come vada al mare al mattino per poi tornare verso le orate e il fritto della Nada, come raggiunga Lucca e le Mura passando da Ripafratta, e perché vada a Pisa in cerca di fumetti in bancarelle per metà abusive da venti anni. Quando poi ci siamo salutati e Doriano e rimasto ho sentito la voce dell’amico più intimo di mio padre.
- Ho passato l’ultimo giorno con lui, e ti racconto cosa ci siamo detti. Ricordo tutto. E se mi verrai ancora a trovare altro ti racconterò. Era forte come sempre, Lalo. Nessuno poteva pensare che poche ore dopo sarebbe morto nel campo alla Barra sotto un ulivo. Di certo sai che lui dalla guerra in Albania non l’aveva più visitato alcun dottore. Con una visita al cuore sarebbe ancora qui con noi. Però non ammetteva mani di dottori sul suo corpo. Quel giorno avrà sentito una fitta al petto e si sarà sdraiato al fresco, era giugno, il 12, dicendosi passerà e se non passa è lo stesso. Vuol dire che oggi è arrivata la mia ora. Salendo in auto, raggiungendo con meno di un chilometro l’ospedaletto in paese, l’avrebbero salvato. Tu l’hai ritrovato a notte, tra le lucciole che sembrava dormisse. Ora ascoltami e rammenta quello che ti dico, tuo padre mi disse quel giorno…


Accio
29 agosto 2010

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